IL BALSAMICO NELLA STORIA

La storia dell’aceto balsamico non è ad oggi del tutto definita, vari sono gli scritti e i documenti storici disponibili in cui si fa riferimento alla nascita di quello che sarebbe poi diventato l’aceto balsamico.

Una pittura funeraria dell’antico Egitto risalente circa al 1000 AC ci parla per la prima volta della pratica di cuocere il mosto. Ma le prime documentazioni più apprezzabili risalgono alla magna Grecia in cui il mosto d’uva veniva utilizzato per conservare i cibi, un uso che dopo la conquista di Roma si sarebbe poi trasferito a tutto l’impero romano. Gli antichi romani infatti erano soliti cuocere e ridurre i mosti d’uva in diverse concentrazioni che chiamavano saba, defrutum e caraenum; non solo ma durante tutto il periodo che vide il mediterraneo sotto il controllo romano con la parola “l’acetabulum” si identificava l’ampolla contenente l’aceto, e soprattutto con il verbo “defrutare” si indicava per la prima volta l’attività di cuocere il mosto d’uva. Mentre Virgilio nelle sue Georgiche descrive così una casa contadina dell’area emiliana: “è autunno… la donna siede al telaio tesse e canta oppure cuoce il mosto, il dolce succo, sul fuoco togliendo attentamente con una frasca la schiuma dal liquido ribollente sul paiolo”.

Al 1046 risale invece il primo scritto che narra di Enrico III, imperatore teutonico, che fece richiesta al marchese toscano Bonifacio, padre di Matilde di Canossa, di ricevere in dono uno speciale aceto la cui nome lo aveva preceduto “poiché voleva di quell’aceto che gli era stato lodato e che si faceva nella rocca di Canossa”

Sebbene la parola “balsamico” non venga mai menzionata, l’importanza del prodotto è confermata dal fatto che Bonifacio gliene fece dono entro una botticella d’argento, e che Alberto, il visconte di Mantova, per rispondere in modo adeguato abbia inviato all’Imperatore numerosi cavalli, astori ed altri rapaci. Il riconoscimento imperiale fece sì che tale aceto arricchisse le tavole nobiliari di tutta la zona, gettando le basi per la fama che ne avrebbe influenzato le sorti per i tempi avvenire, sino ai nostri giorni. Nel 1518 il poeta reggiano Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia e vissuto in ambito estense, scrive nella satira III un accenno all’utilizzo culinario di “acetto e sapa” come condimenti di uso comune. Da qui iniziano le documentazioni più attendibili e continuative di questo meraviglioso prodotto alimentare. In tutto il rinascimento, periodo in cui i banchetti dei nobili sono dei veri e propri spettacoli di sfarzo, durante i quali si ostenta lusso e ricchezza, l’aceto balsamico diventa un prodotto immancabile nelle tavole della nobiltà emiliana. Infatti grazie ai duchi di Modena e Reggio, la fama di questo prezioso condimento si espanse su tutta l’aristocrazia europea. L’aceto balsamico, segreto gelosamente conservato nelle soffitte della corte estense e delle famiglie aristocratiche del ducato, iniziò ad essere appannaggio della borghesia più ricca solamente a seguito dell’avventura napoleonica: per pagare debiti e fornitori l’amministrazione imperiale francese espropriò le proprietà dei vinti, e numerosi furono i beni venduti all’asta o utilizzati come pagamento in natura. In tale contesto di mutamenti economici e politici, il possesso di vaselli e batterie di aceto balsamico venne immediatamente percepito come un segno di ascesa sociale, e durante tutto il secolo si infittiscono le fonti documentali che fanno riferimento a passaggi, donazioni o lasciti testamentari legati a batterie di aceto. Anche presso la borghesia, così come era stato uso presso le famiglie aristocratiche, divenne buona regola aggiungere dei vaselli di valore alla dote della donna in procinto di sposarsi. Nel 1764 la zarina Caterina La Grande, inviò il Gran cancelliere di Moscovia, in missione diplomatica nelle capitali europee, questo una volta giunto a Modena chiese di spedire a Mosca alcune bottigliette di Balsamico. Vent’anni dopo, nel 1792 il duca Ercole III ne inviò un flacone a Francoforte come dono per l’incoronazione di Francesco II d’Austria ad imperatore.

Nel 1803 con l’occupazione francese le batterie ducali furono vendute all’asta, ma il patrimonio non andò perduto grazie alla nobiltà che l’acquistò per uso personale.

Nel 1862 con l’annessione al regno d’Italia Vittorio Emanuele inviò le migliori batterie a Moncalieri, dove però a causa dell’incuria e al clima inadeguato si estinsero. Per la prima volta le batterie di aceto balsamico erano divenute il bottino di un re.

L’importanza del Tradizionale fu tale che dal diciannovesimo secolo consuetudine volle che le doti delle giovani spose reggiane venissero corredate da vaselli di aceto balsamico e da piccole botticelle per il suo affinamento negli anni. Un valore già allora ritenuto inestimabile, in grado di dare un importante imprinting a tutta la cultura reggiana. 

Oggi questa cultura viene tutelata da un ente denominato Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia. Tale consorzio certifica la qualità  di un prodotto che affina per un tempo mai inferiore ai 12 anni e, sulla base delle caratteristiche organolettiche, conferisce allo stesso un sigillo di qualità, distinto tra bollino Aragosta, Argento e Oro. Una procedura molto rigida che impone persino che l’imbottigliamento debba avvenire in presenza del Consorzio che, a tappatura e laccatura avvenuta, consegna al produttore le ampolline numerate e tracciabili, dotate del bollino che, sulla base della propria qualità, hanno guadagnato.

In questo modo, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia è in grado di esaltare nel migliore dei modi i prodotti gastronomici emiliani, ma non solo. Un’eccellenza che oggi ci viene riconosciuta dal mondo intero e che fa del capoluogo emiliano un polo del gusto assolutamente autorevole nel mondo.

Prenota la tua visita all'Acetaia o chiedi informazioni compilando il form.

* i campi contrassegnati con l'asterisco sono obbligatori